alla SardegnaA chi non conosce il mare
Queste righe sono dedicate a Carlo Boschetti, che ha insegnato a molte persone ad andar per mare con il massimo rispetto. Arriviamo a Stintino dopo dodici ore di navigazione a vela, tutte di bolina. Si chiama così il modo di andare controvento. Si percorre il mare a zig zag con un angolo sufficiente affinché il vento possa gonfiare le vele. Al timone ci siamo alternati quasi tutti. Le virate sono state pochissime. Abbiamo compiuto settanta miglia in soli due bordi (uno “zig” e uno “zag”). Solo per poco tempo abbiamo dovuto accendere il motore, utile anche a ricaricare le batterie per la sopravvivenza del cibo in frigorifero, aiutando le vele lasche in un momento di calma di vento. Nessuna barca incrociata durante il percorso. In compenso ci hanno fatto compagnia due piccoli branchi di delfini. Niente male per essere gli inizi di agosto del 2000, anno in cui, secondo le migliori previsioni, avremmo dovuto cibarci di tubetti di pollo arrosto o almeno girare per le città con la maschera antigas. E invece la Sardegna è ancora qui, che profuma di mirto e lentischio, malva ed elicriso, con i suoi figli, in estate, rintanati nelle case fino a sera per sfuggire all’implacabile mamma del sole che a mezzogiorno frusta inesorabile i sassi e l’erba secca e le pietre roventi dei nuraghe. Bambina rimani in casa fuori c’è la mamma del sole a cent’ottanta gradi gialla come un limone ti possono salvare solo le querce andiamo a dormire dobbiamo ascoltare cicale litigando in mezzo a un melo (“sa mama ‘e su sole”, Tazenda, Murales, 1991, brano originale cantato in sardo logudorese). Abbiamo incontrato solo due imbarcazioni all’imbocco del porto industriale di Porto Torres. Un mercantile e un laboratorio per rilevamenti marini. Sono tredici giorni che planiamo col nostro Zanzibar dodici metri e trenta, pulita e profumata come una casa nuova, spinta da 96 metri quadri di vele bianche, libera di volare e di graffiare la pelle del mare senza lasciare alcun segno. Ieri abbiamo attraversato le Bocche di Bonifacio, da S. Teresa di Gallura a Lavezzi. La barca filava a sette nodi ed era inclinata a dritta tanto che dal ponte si poteva toccare l’acqua. Ho timonato gran parte del tempo in piedi sullo schienale laterale del pozzetto. Oggi è il giorno della quiete. Siamo in rotta verso Porto Torres dall’alba ed era la nostra meta fino a due ore fa, quando dopo una protesta collettiva confortata dal vento crescente e da una buona riserva di acqua, cibo e Vermentino, abbiamo deciso di virare e ritracciare una rotta diversa, per allontanare ancora un pochino il contatto con gli altri umani. Oramai sono le nove e il sole sta tramontando. Sono ancora di turno al timone e muoio dal freddo. Dopo dodici ore di sole verticale, assieme all’ombra gelida i colori sono virati verso l’azzurro. Siamo come ragazzi incoscienti che conoscono allo stesso tempo l’irruenza dell’entusiasmo e la lentezza dell’ozio. Finché c’è luce. Vorrei addosso un indumento caldo, di lana. Nessuno metterebbe nella borsa estiva un maglione, ma è così, appena si esce dal percorso obbligato, dal binario sul quale è abbracciata la nostra vita. Spegniamo la musica subito dopo Follow me down degli Skunk Anansie. La voce di Skin ha dato un’aria solenne al nostro avvicinamento alla baia. Normalmente certe canzoni mi emozionano. Stavolta avrei potuto restarci secco dalla pelle d’oca. Sulla sinistra il profilo della celebre Roccaruja, la torre rossa cinquecentesca che protegge l’imbocco del canale stretto tra la spiaggia della Pelosa e l’isola Piana. Quest’immagine è presente fino all’ossessione su tutti i cataloghi turistici. Come se fosse un modello di riferimento per un luogo ideale, reale ma che supera la fantasia. Per favore spegnete i telefonini. L’incanto e la concentrazione mi vietano anche solo di chiedere sottovoce un indumento da indossare, figuriamoci parlare di telefonini. spero solo che non squillino. Il silenzio irreale interrotto dal canto dei gabbiani ci invita al massimo rispetto. Puntiamo lentamente per la baia a ridosso dell’isola Piana. Passeremo lì la notte. Saremo l’unica barca in rada. Zanzibar è quasi ferma. Sarebbe un delitto accendere il motore per manovrare. Organizzandoci bene, con questo refolo di vento da Ovest, riusciremo a manovrare per stendere l’ancora a vela. Il frigorifero vorrebbe energia ma può farsi benedire. Per oggi ne farà a meno. Carlo dice “Prepariamoci a scontrare la randa”. Il vento proviene da prua, la vela spinta da quattro persone arriva ad essere perpendicolare alla barca. Il vento la spinge e lo scafo rallenta... poi si ferma. Si getta l’ancora. Il vento spinge ancora la randa bloccata dalle nostre braccia. Comincia la retromarcia. Lentamente la catena si svolge sul fondo nero come la pece. Una prateria di posidonie sarà il nostro letto, questa notte. Ora la barca è saldamente ancorata, immobile. Adagiata per riposare, rilassandosi dalle mille tensioni strutturali di una giornata in mare. Non emette più scricchiolii né alcun rumore di tensione. Tace. Oramai è buio ma a poppa si intravede sul fondo una macchia bianca di sabbia immacolata che interrompe la valle di alghe. È necessario tuffarsi e sfidare il freddo per togliersi la giornata di dosso, e la pozza candida tra le alghe scure è il conforto necessario. Sulla barca si attende in silenzio che il forno faccia il suo lavoro su uno sformato di verdure e pecorino e rosmarino selvatico, raccolto nel silenzio solenne dell’isola di Lavezzi. Osserviamo l’ultima luce e il profilo costiero e ci troviamo ad incrociare i nostri sguardi imbarazzati. Qualcuno ha il sorriso che va da un orecchio all’altro e non riesce a parlare. Qualcuno tenta una goffa battuta ironica con pessimi risultati “bello qui..., beh certo, Bollate è Bollate, ma anche qui non è male”. Quel che mi tormenta è che vorrei che fosse qui ogni persona della mia famiglia, mio padre, le mie sorelle e ogni altra persona che ho incrociato nella vita. Vorrei telefonare a tutte le persone che conosco per condividere questo momento, ma la mia voce e le mie parole basterebbero solo per una frazione di tanta magia. Rimango solo, con questi compagni che difficilmente rivedrò, l'odore delle erbe di Sardegna nel vento e queste due righe sono la migliore fotografia che posso donarvi. Roberto Botturi Dormono i vertici dei monti e i baratri, le balze e le forre; e le creature della terra bruna, e le fiere che ai monti s’acquattano, e gli sciami, e i cetacei nel fondo del mare lucente. Dormono le famiglie degli uccelli fermo palpito d’ali. (da Notturno di Alcmane, traduzione dai lirici Greci di F.M. Pontani) Dune d'acqua
di Roberto Botturi e Nadia del Frate
Questa poesia, ispirata da una storia vera, è dedicata a tutti quelli che sono stati o che saranno profughi. Conosco il deserto di pietra e le stelle che gli fanno la guardia sono le stesse che rischiarano questa notte passata su dune d’acqua. L'orsa minore dice che la nostra rotta è Nord - nord Ovest. L'odore del mare si mescola a quello di latrina e di gasolio di un motore che non si ferma mai Conosco tre lingue e un poco di italiano imparato alla TV ho in mente foto del Colosseo, di gondole e di torri Eiffel Ma per adesso vedo solo volti lucidi sfregiati dai riflessi blu della paura. Poi nel mezzo della notte il lupo si fa feroce, il pozzo si fa profondo. Si fa caverna. Potrei cedere alle braccia assetate della tempesta e farmi acqua come il mare. Sono più di trecento queste ombre che tremano assieme, bevendo pioggia. Anime aggrappate ad un legno fradicio, con in tasca solo un indirizzo bagnato di un parente già arrivato. Uno squarcio più forte ci fa sussultare. Poi il pianto di un bambino che nasce, qui, in mezzo al mare. Lo chiameremo Yeab Sera: lavoro di Dio. C'è Dio su questa barca, dove sono io. Nato in una stalla coperto di sangue, di stracci e di stelle dissetato dall’idea di un futuro. Qualunque esso sia. L’urlo di Yeab prende il vento e la criniera del cavallo imbizzarrito e ne fa un nodo. Poi accarezza l’onda e la doma. E l’onda si fa più lieta, e lunga. Si fa culla, e diventa solo memoria della tempesta. Siamo tutti salvi anche se non abbiamo più bile da vomitare. Nell’acqua di nuovo ondeggia un riflesso. È la luna che torna a fare del suo meglio. Il pianto di Yeab si accuccia nel canto di una madre stremata, Ninna nanna che sa di sabbia e sole bagaglio leggero come un ricordo Poi una luce, forse il faro di Lampedusa. Yeab amore, la nostra cometa. Il nord è laggiù: l’Italia, l’Europa Le dune d’acqua sono finite, ora Ora che la pelle scura di un presidente non parla più di schiavitù, ma di speranze nuove Ora, speranze nuove come i tuoi occhi scuri e la tua voce. Non so quale musica canterà il tuo dolore, Yeab Serà, ma so che sei mio fratello, e che la luna protegga la tua libertà. |